Processo di Beatificazione di Fra Pellegrino Boni
Abbiamo già dato notizia dell’inizio del processo di canonizzazione di fra Pellegrino, frate minore francescano, avvenuta il 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, nella chiesa conventuale di S. Bernardino a Sinalunga, da parte del Vescovo delle Diocesi di Montepulciano, Chiusi e Pienza, Stefano Manetti.
Alla solenne Concelebrazione eucaristica hanno partecipato il Vescovo di Grosseto Rodolfo Cetoloni, il Parroco di Badia Tedalda, quello delle Balze, vari parroci della zona, P. Crisostomo, superiore attuale del Convento di S. Bernardino, P. Ugo e i delegati del Ministro Provinciale di Toscana, fra Massimo e fra David.
In questo articolo vogliamo farvi conoscere alcuni aspetti della figura e della vita di fra Pellegrino, vero testimone dello spirito francescano nel nostro tempo.
Fra Pellegrino, al battesimo Sante, nasce il 7 dicembre del 1898 a Viamaggio, nel comune di Badia Tedalda, in provincia di Arezzo e diocesi di Sansepolcro, da Antonio e Bini Geltrude. Crebbe in una famiglia che osservava i propri doveri religiosi in modo esemplare. Con i genitori e i fratelli, lavorava d’amore e d’accordo la terra di un podere a mezzadria prima nel paese nativo, poi a Colorio, piccola frazione delle Balze, in provincia di Forlì. Sante aveva un carattere riservato e poco incline a partecipare con gli amici al chiasso e ai giochi nelle feste paesane. Fece il servizio militare durante la guerra del 1915-18. Tornato in famiglia continuò nel lavoro dei campi, ma presto incominciò a sentire l’attrattiva verso la vita religiosa francescana. Ne parlò con i genitori e col parroco. Il 15 aprile del 1926 si recò al Santuario della Verna, dove fu accolto fraternamente dal P. Guardiano e dalla comunità. Trascorso un anno in questo Convento, tanto caro a S. Francesco, chiese al Superiore di poter fare il Noviziato, come fratello laico. La sua richiesta fu accolta e il 12 agosto del 1927 fu accompagnato al Convento di ritiro dell’Incontro, presso Firenze, dove vestì il saio francescano e fece l’anno di Noviziato, al termine del quale fu ammesso alla Professione temporanea.
Terminato il Noviziato i Superiori lo inviano nell’Infermeria di Fiesole, dove fra Pellegrino esercita con vero senso di fraternità il servizio di assistenza ai frati anziani e malati. Ma dopo pochi mesi, il 13 gennaio del 1929, l’obbedienza lo porta al Convento di S. Bernardino a Sinalunga con il compito di cuoco e di fornaio per la numerosa comunità religiosa, poiché vi erano anche gli studenti del primo anno di Teologia. Nel 1935 ebbe l’incarico di fare il questuante, un compito umile e gravoso, ma necessario per il sostentamento della comunità religiosa. Fra Pellegrino avrebbe preferito continuare nell’incarico precedente, che gli permetteva di vivere pienamente la vita di fraternità nella preghiera, nel raccoglimento e nel silenzio, ma accettò senza obbiezioni il nuovo incarico, che eserciterà per 40 anni, “bussando di porta in porta” secondo lo spirito della regola francescana, per sopperire alle necessità dei frati, soprattutto durante il periodo della II guerra mondiale; per la sua solerzia i generi di prima necessità non mancarono mai al suo convento. La testimonianza di tanti frati, di tanti parroci e di tanta gente del popolo, che incontrarono fra Pellegrino in questo suo peregrinare fra le terre di Sinalunga, Lucignano, Marciano, Torrita, Trequanda, S. Giovanni d’Asso, Asciano e Rapolano, ci dice che questo “fraticello da cerca” esercitò il suo ufficio con umiltà, senso di servizio e spirito di evangelizzazione nell’incontro con famiglie e persone, tanto che anche in tempi politicamente difficili e di contrasti sociali, come quelli del dopoguerra, egli fu sempre accolto come una benedizione di Dio, per la sua umiltà e mitezza. Passava molto tempo fuori convento, ma il suo cuore era sempre nella fraternità; ogni volta che era nella possibilità materiale, faceva di tutto per ritornare al convento, per partecipare alla Messa, alla preghiera e alla vita di comunità. Era molto devoto alla Madonna del rifugio, che si venera in una Cappella della Chiesa del convento: ogni giorno, alzandosi alle ore cinque, vi sostava a lungo in preghiera e meditazione.
Il 10 luglio del 1990, fra Pellegrino ormai novantunenne, mentre alle ore 5,15 si recava in Chiesa a pregare, come era solito fare ogni giorno, cadde per le scale del convento e si fratturò il braccio e la clavicola; portato all’ortopedico di Chiusi, fu visitato dal P. Provinciale, che credette opportuno farlo ricoverare all’Infermeria di Fiesole per le cure necessarie; ma sopraggiunsero delle complicazioni, che in pochi giorni lo condussero alla fine. Morì il 29 luglio alle ore 22 e 40, per collasso cardiocircolatorio: tre giorni prima si era confessato, in piena conoscenza ricevette l’Unzione degli infermi, circondato dall’amore e dal dolore dei frati e infermieri. P. Leonardo Zanelli, responsabile della Infermeria, ebbe a dire: “fra Pellegrino era un santo in vita, è stato un santo anche nella malattia. Si era davanti ad un’anima rara per doti spirituali. Non era un religioso ordinario: era un’altra cosa… “ Certamente voleva dire: era un santo!
Noi ci domandiamo il perché, che è poi la ragione per cui è stato dato inizio al processo di beatificazione. Perché fra Pellegrino è stato uno di quei frati, di cui san Francesco diceva: “ne avessi di questi frati!” Cioè vero frate minore, umile e povero, obbediente fino a prevenire la volontà dei superiori, custode della santa purezza del corpo e dello spirito, amante della vita fraterna e della preghiera, osservante fino allo scrupolo della regola francescana, che volle fortificare fin dal Noviziato con propositi scritti, con elegante calligrafia, in un quadernetto, trovato nella sua cella dopo la morte e ai quali si attenne per tutta la vita e che riguardavano impegni di preghiere quotidiane, di pratiche settimanali, di mortificazioni esterne, di atteggiamenti interiori da raggiungere e da tenere di fronte a Dio, ai fratelli, a tutte le persone che incontrava. Voglio trascriverne solo uno, ma molto significativo: “per mantenere la pace interna e spirito d’amore fervente mi prefiggo di osservare queste cose: essere morto al mondo, alle creature e a me medesimo e a tutto ciò che non è di Dio io debba stimarlo meno di un granello di arena. Vivere abbandonato tra le braccia della provvidenza e tutto ciò che succede nella giornata o piccolo o grande o propizio o avverso attribuirlo sempre alle disposizioni della Divina Provvidenza tenendo per certo che è il miglior modo e il più conveniente sia per la gloria di Dio che per la mia salute. Amare il patire sia nell’interno o nell’esterno”. Fra Pellegrino può certo essere additato ad esempio per ogni figlio di San Francesco e per ogni cristiano. Fra le tante persone e famiglie che incontrava nel servizio di questuante seppe diffondere, con semplicità di parola e con l’esempio della vita, la buona parola del Vangelo e la letizia francescana. Tutti quelli che lo hanno conosciuto e incontrato lo hanno stimato un santo. Ora il loro desiderio è che sia riconosciuto tale anche dalla Chiesa. Termino riportando una bella testimonianza lasciataci da Don Icilio Rossi, già Vicario generale della Diocesi di Montepulciano. “ E’ certamente vero che l’autentica sapienza nasce e cresce soltanto nel terreno dell’altrettanta autentica semplicità. Poi dalla semplicità alla povertà, per vivere la disponibilità fraterna. Siamo nello spazio voluto da San Francesco! Mi sembra che proprio per questo fra le tante considerazioni che possiamo fare sulla personalità di fra Pellegrino, ce n’è una che è la più importante perché egli stesso l’ ha considerata tale e sempre desiderata: essere fino allo scrupolo, fedele figlio di S. Francesco!”